Ritrovare Alfredo Espinoza
 
 
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Ritrovare Alfredo Espinoza

 

 


di Duccio Castelli

 

 

Dicembre 1995 - Valparaiso, Cile.
Ho cinquant’anni. In Sud America è estate. Avanziamo in prima, con l’auto nipponica di Cristiàn, architetto e jazzista, tra le anguste vie sterrate, salendo un ripido cerro montagnoso nella parte povera della città.
Passiamo vicino a case basse di adobe (fango e sterco secchi), dipinte di ogni colore e dal fascino australe. L’origine delle colorazioni pittoresche e ardite è – qualcuno mi confida – l’acquisto a prezzo basso di fondi di magazzino di colorifici.
Un cane triste costeggia un muro color cobalto, che dietro l’angolo diventa ocra. Così, tra occhi che guardano e gente che indica dove, infine arriviamo e scendiamo.
Lo sguardo scivola verso la baia e l’oceano scuro e solenne: il Pacifico.espinoza
Sono passati dodici anni da quando vidi l’ultima volta Alfredo Espinoza. Fu a Santiago. Ricordo bene quel giorno del dicembre 1982: io stavo tornando a casa dopo alcuni anni vissuti nel suo paese ed ero al commiato. Una forte stretta di mano e un abbraccio sudamericano. Mi diressi all’uscita della sala di incisione e mi girai ancora un istante verso di lui con uno sguardo, che mi è rimasto fino ad oggi”.
Alfredo il grande? Alfredo il grande. Un artista. La cui grandezza lo accompagna durante la vita, al passo con la sua sfortuna. Se fosse nato negli Stati Uniti all’inizio del secolo, starebbe nella grande storia del jazz. Perché quando entra in formazione in una orchestra, qualsiasi orchestra, essa comincia a volare, come accadeva con il grande Bix Beiderbecke, negli anni venti. Gli anni veri.
Ci si fa incontro sua madre, Marcelina. Ha sedici anni più di lui, con un sorriso ci racconta di Alfredo mentre entriamo nel soggiorno. È una grande sala con una splendida vista sul golfo e la città. Noto nel muro una grossa crepa, ricordo dell’ultimo terremoto di cinque anni prima. Al prossimo, temo che il soggiorno crollerà sulle case di sotto.
“Sa, ho cercato di farlo reagire, ho messo su i vostri dischi, ma non si è alzato. Lui fa così”.
Marcelina ci fa strada nella casa, lungo un buio corridoio in cui dopo qualche anno sarebbe caduta morta. Giunta in fondo, si fa da parte, lasciandoci soli e a voce alta verso una porta esclama: “Ci sono i tuoi amici!”.
Sia io, che mio figlio e Cristiàn avanziamo imbarazzati, cercando ognuno di fare andare avanti l’altro. Mi ritrovo, per anzianità o per ruolo, ad affacciarmi per primo.
Fatimo.
Dopo la sparizione e la successiva apparizione di Bogotà, lo avevamo soprannominato Fatimo. Il fatto era capitato su di un volo notturno dal Cile a New Orleans, nel 1981, quando avevamo io trentacinque anni e Alfredo trentotto. Eravamo stati incaricati, io e un altro musicista, di non farcelo scappare. La banda era in trasferta verso la mitica città del delta del Mississipi, in Louisiana. Ma Alfredo era un’anguilla e non aveva mai avuto il senso della realtà. Poteva perdersi – come Frankestein – seguendo una farfalla, oppure ritrovarsi su di un altro aereo pensando a note e ad armonie. O pensando ai Fenici.
Ci eravamo quindi piazzati ai suoi lati, bloccandolo come poliziotti nelle file di fondo di quell’aereo semivuoto.espinoza
Fino allo scalo tecnico in Colombia non ci sono grossi problemi ma là, Alfredo ci chiede di andare a cercare delle scarpette da regalare al suo nipotino. Noi cerchiamo di resistere e di dissuaderlo, ma non c’è niente da fare. Allora, lo scortiamo per i corridoi deserti, dove però qualche negozio sembra aperto. Qui il ricordo diventa nebuloso. Alfredo fa un paio di finte, poi vuole andare alla toilette e improvvisamente non c’è più. Noi ci guardiamo in faccia. Ci ha fregati tutti e due.
“Tu vai di qua! Io vado di là! Fra quanto riparte? Ci ritroviamo là!”
Ma non c’è più nulla da fare, è ormai chiaro: è riuscito a sparire.
Torniamo in aereo e Alfredo non c’è.
Due commenti, un’altra occhiata, ed eccolo invece riapparso, seduto al suo posto. Non sapremo mai come ha fatto.
Alfredo sembra, con i suoi capelli lunghi e corvini, un indio dell’Amazzonia e con il clarinetto è un cacciatore di teste che tira la cerbottana fatale.
Ma è cileno, quasi argentino. A Buenos Aires lo chiamano “El Chileno” e in Cile “El flaco Che”, cioè “il magro argentino”. A Parigi, dove aveva “jammato” con i nomi più grandi, come Bill Coleman, Bud Freeman, Bill Rank e Lionel Hampton, è ancora oggi una leggenda: nemo propheta in patria.
“Devo comprare le sigarette”. Ricordo anche quel sabato estivo del 1982 a notte fonda, a Santiago, quando mancavano quaranta minuti al toque de queda, il coprifuoco!
“Ma Alfredo, fra poco dobbiamo lasciare la macchina, non c’è tempo!”. Niente da fare anche quella volta: “mi occorre solo un minuto” e così, a malincuore, lo lasciai entrare nel bar. Un problema complesso, perché oltre ad avere pochi minuti per arrivare a casa, ero vestito da cavernicolo (venivamo da una festa in maschera ma non era carnevale), avevo pure la clava! Non mi sembrava il caso di entrare nel bar. Peggio, mi preoccupava un eventuale controllo dei Carabineros, in orario vietato, con un tipo come Alfredo e vestito da cavernicolo. Mi sembrò di attendere anni.
Uscì dopo mezz’ora. Con un occhio nero e senza sigarette.

Introduco il viso nella squallida stanza. Alfredo è di profilo, sul letto basso, quasi un pagliericcio, guarda il muro di fronte e fuma l’ennesima sigaretta. Di fianco, tra cicche e libri, è spiegato, sgualcito, un vecchio manifesto dei suoi concerti in un Festival di Breda, in Olanda, nel 1975, quando era stato la stella di quelle giornate.
Ci guardiamo negli occhi. “Hola!” e si tira un po’ su per abbracciarmi. Da sopra la mia spalla, anche mio figlio Robin lo saluta e Alfredo prontissimo riconosce il bambino ora uomo e gli fa festa. Poi tante cose. Incomprensibili a noi.espinoza

Oggi, dopo altri anni ancora e non importa quanti, Alfredo mi telefona per augurarmi buon anno, mentre scrivo in giardino queste note dopo una siesta davanti all’azzurro della piscina, immerso nel mio vizio invernale di una estate australe.
È passato poco più di un anno dal nostro concerto del 2000 al Petit Journal St. Michel a Parigi, primo di vari di una breve ma intensa tournée, per la quale avevamo lavorato per oltre un anno. Quella rimpatriata lo aveva finalmente e giustamente restituito alle scene d’Europa, dove vivevano molti dei suoi amici migliori.
Milano - Italia, giugno/ottobre 2011
Conobbi Alfredo Espinoza nell’inverno australe di Santiago del Cile, nel 1980. Stavo suonando nella Retaguardia Jazz Band, in concerto al Club de Jazz. Mi dissero: adesso sale un sassofonista a suonare con noi. Non ci feci troppo caso (è cosa ricorrente nel jazz). Sale dunque un tipo strano col sax alto e si aggrega all’assieme che già stiamo suonando.
Un impatto... Un impatto impressionante ebbi da lui.
Quell’uomo era appena tornato al suo paese di origine, il Cile, da dove era partito ancora bambino trent’anni prima. Reduce da un matrimonio presto finito, in quella sala e nella vita era solo... La moglie americana con Gabriel, il loro figlio ancora in fasce, se ne era andata negli Stati Uniti. Lui, quella sera, in quel posto, in quel suo paese, era uno sconosciuto.
Parlare di Alfredo Espinoza è parlare di un polpo. Più convenzionalmente potrei dire, e con maggiore cortesia, che non si può parlare di lui senza scomporre il personaggio nei suoi vari aspetti, tutti pronti a sfuggirci, tutti pronti a mostrarne un altro che non vedevamo. Sopra a tutti, la sua presenza, il suo stesso essere, contemporaneamente serio e umoristico. Si suppone che conti maggiormente l’aspetto serio, eppure la gente parla spesso del suo aspetto umoristico ma Alfredo non si offende, né viene offesa la sua immagine, perché lui è così davvero.
Prevenuto e malevolo, io, come ogni musicista che si rispetti, quando salì a suonare questo intruso, lo attendevo - per misurarlo - al varco del suo assolo. Ascoltai le sue prime tre battute e già ne fui sconvolto... Esclamai concitato al collega al mio fianco: Por Diós! Por Diós! Como toca!
Suona il campanello. È estate, ed è l’una e mezzo di notte. Accendo la luce, mia moglie dice: “ma chi è a quest’ora!” Certo... Guardo fuori ed è Espinoza. Lei si gira e torna a dormire: che me la veda io con i miei amici del jazz.
“Ciao Duccio, è che l’ultimo bus di mezzanotte è già partito e suonavo al Club e ormai non ce ne sono fino a domattina, per Valparaiso. Mi lasceresti dormire qui un po’? Non saprei dove andare”.
“Certo, entra”.
La mattina dopo è domenica, mi alzo alle nove e il salotto dove dorme Alfredo è buio; tutto a posto, dorme ancora. Lasciamolo stare fino alle dieci, dico. Alle dieci tutto tace. Aspettiamo le undici, è stanco, suona molto e dorme poco, dico.espinoza
Poi esco, ho da fare.
Alle due del pomeriggio mi chiamano: “il signor Alfredo è dentro e non si sente niente, cosa dobbiamo fare?” Mi preoccupo. Dandogli un passaggio, aveva detto a me e mia moglie in macchina - tra un semaforo e l’altro - tre mesi prima, che doveva suicidarsi, presto. Lo svegliarono: era vivo e vegeto. Gli portarono caffè, latte, toast e il resto, ma toccò solo il caffè e fumò tre sigarette. Poi, scomparve ringraziando.
Alfredo Espinoza era nato a 130 chilometri da lì (Santiago del Cile, dove eravamo in quel momento), quasi una quarantina di anni prima. Nacque infatti a Valparaìso, il 28 dicembre del 1942.
Tutto, di lui, mi apparve sempre contradditorio. Quando lo conobbi, mi pare avesse una decina d’anni più di me, ma recentemente pare ne abbia solo tre. Da piccolo, intorno ai dieci anni di età, i suoi si trasferirono in Argentina, a Buenos Aires. Ma prima di emigrare stava in Cile a Valparaìso con la mamma Marcelina (che lo aveva avuto, credo, a sedici anni da un marinaio che si mise a lavorare nella dogana del porto). Il padre morì nel 1952 e la madre si risposò con un fantino, col quale emigrò verso migliori lidi (ippici), a Buenos Aires, portandosi il piccolo undicenne Alfredo e le due sorelline. Alfredo prese l’imprinting, nella sua lingua spagnola, dal paese del tango. Un accento inconfondibile (tranne che con l’uruguayano, che è uguale) e che viene da uno spagnolo rimasticato da quei napoletani - detti Tanos - che costruirono in buona parte il loro nuovo paese: l’Argentina.
La famosa lingua dei “Che” (incluso Che Guevara). “Che” (si pronuncia “ce”), altro non è che la parola italiana “che”, ma male pronunciata.
In realtà, è poi divenuta sinonimo vezzeggiativo di “argentino”, o anche semplice esclamazione, argentina, estremamente frequente. “Che”, infine, è anche riconducibile all’italiano-romanesco- meridionale: “Ecchè!”.
Alfredo, detto anche El Flaco, cioè “il magro”. Oggi è ingrassato e non è certo magro. Alfredo divenne già famoso da giovane, quando sembrava un Jibaro, un cacciatore di teste dell’Amazzonia, coi capelli corvini lisci e lunghi e un bel viso da uccello rapace. Anni dopo, ingrassato e con la cravatta, si pettinava con la riga e sembrava un contabile di banca. Martìn Mueller - argentino - e che era stato suo compagno nella Porteña Jazz Band, lo conosceva bene e mi disse (seriamente), in modo colorito: “Non credeteci! Non è così. E se fa davvero così, sta soltanto giocando a sembrare un contabile di banca: a me non mi frega”. Raramente vidi un uomo “amico”, così cameratescamente ostile ad un suo “amico”. Mueller era stato per anni al fianco di Espinoza nella splendida Jazz Band argentina, la Porteña, che fu probabilmente la migliore al mondo nel suo campo, dopo i tempi di Fletcher Henderson e di King Oliver, le due band originali a cui i Porteños si erano ispirati nei loro migliori anni: dal 1965 e durante gli anni ‘70. E in quella band, la più importante della sua vita, Alfredo Espinoza era il cardine. Era “il” solista. Era il “Bix” dell’orchestra di Goldkette!
Tutti, nella Porteña, ne erano totalmente consapevoli.
Tutti gli arrangiamenti, spesso splendidi, giravano attorno ai suoi assoli, ai suoi interventi, ai suoi break. La band era tutta assolutamente egregia e lavorava senza gelosia o invidia, nell’intento ultimo di fare brillare - assieme a loro - soprattutto la perla che possedevano: Alfredo Espinoza.

Le registrazioni di Alfredo Espinoza sono oggi un problema.
Le sue incisioni artisticamente più importanti sono certamente quelle effettuate con la Porteña Jazz Band negli anni dal 1965 fino alla fine degli anni ‘70, e che sono da tempo immemorabile esaurite e in mano, ormai, solo ai collezionisti.
Inoltre, la band si è divisa all’epoca del cambio di millennio, ricreandosi - con lo stesso nome - in Spagna, dove una considerevole parte dei suoi originali integranti si era ritrovata emigrando dall’Argentina al tempo di una crisi economica. Molti dei protagonisti degli anni d’oro sono scomparsi.
Espinoza registrò abbastanza anche con altri musicisti e altre orchestre ma il suo splendore massimo lo raggiunse con gli argentini.
Esistono poi incisioni private, ma troppo spesso mal realizzate, soprattutto tecnicamente.
Comunque, l’Espinoza storico dei migliori anni è introvabile, perché tutto è esaurito. È quindi molto problematico, per chi si avvicini a questo artista, potersi agevolmente e significativamente documentare, come si fa con altri grandi o medi artisti dalla storia professionale.
Il lavoro della Porteña e con la Porteña, è - e vogliamo insistere - di un’eccellenza straordinaria. Sia la band, che il suo maggiore solista e pilastro, Espinoza, raggiungono in molte occasioni delle altezze musicali e artistiche degne dei migliori momenti di storia, in assoluto.
Vi sono passaggi che richiamano - e con voce propria - pathos e momenti ritmici paragonabili ai livelli raggiungibili dagli Henderson, gli Oliver e perfino gli Hot Five (si ascolti per esempio la versione di “Skid da de dat” del 1968 dal disco “Buenos Aires y Paris”).
Eppure: “se viene a Buenos Aires avvisatemi: io parto”, mi disse, congedandomi all’aeroporto Ezeiza di Buenos Aires Martìn, dopo tre giorni passati a casa sua, suonando con lui (proprio nella Porteña) nei primi anni del Duemila e parlando di Alfredo anche per il film che Diego Pequeño stava allora iniziando a preparare (“Escape al silencio”). Mueller mi aveva raccontato di tutto su di lui. Riporterò, que e là, alcune delle cose ascoltate ma... senza garanzia, così, visto, piaciuto e preso: intanto la buonanima di Martìn Mueller è passata a miglior vita e quindi adesso non si saprà più nulla di definitivo.
Un 28 dicembre, mi pare del 2007, giorno del suo compleanno, Alfredo è con me a Santiago in piscina. Gli vedo una tremenda cicatrice nella pancia (poi risultata sconosciuta a tutti, tranne che alla sorella) e gli chiedo: “ma cos’hai fatto lì?!”
“Ah, qui? È stato il mio patrigno... Sì, perché si era arrabbiato con me e mi ha dato una coltellata”. Naturalmente trasalgo e gli domando di più.
“Ma come fai ad essere vivo?”
“Mi han portato all’ospedale e mi hanno operato”
“Sì ma questo è un harakiri! E han fatto in tempo... ma quando è successo?”
“Parecchi anni fa. Il problema è che mi si è tagliato un collegamento e adesso... non mi posso “innamorare più...”, disse, ridacchiando per l’allusione”.
Tutti hanno sempre voluto suonare con Alfredo, incidere con lui, parlare in giro di loro con lui. Così come capitava a Bix Beiderbecke quando, spossato dall’alcol, ugualmente gli offrivano altro alcol e lo tenevano su di notte con loro per farlo suonare. Anche quando sapevano che era in astinenza terapeutica e così facendo lo aiutavano... a morire.

Alfredo suona con chiunque. Alfredo suona da solo e quando suona non è facile comunicargli niente, salvo che con delle note. Quando suona con un jazzista molto buono suona al suo meglio, e il suo meglio è impressionante.
È singolare e interessante notare come l’Alfredo che suona con un musicista meno valido, suoni vagamente svogliato e la sua stupenda tecnica si irrigidisca.
Infine, qui affermo che non è vero che dopo il sonno dei dieci anni non sia più l’Alfredo Espinoza di prima. Ascoltatevi la jam session registrata a Santiago nel 2002 (Espinoza con il notevole Federico Dannemann alla chitarra elettrica, e gli ottimi Felipe Chacòn al contrabbasso e Antonio Gaete alla batteria), CD premiato Fondart. Una belva di swing e un angelo della melodia!
Ricordo che nei primi mesi che lo conoscevo, facevamo uno stile arcaico e lui suonava lo stile arcaico, non una nota mai - da solo o accompagnato, in prova o in concerto - che non fosse arcaica. Viveva l’arcaico. Era un arcaico. Ma una sera gli chiesi se amava Parker e lui mi rispose subito semplicemente, con il sax. Era Charlie Parker.
Fu un altro impatto. Un impressionante impatto che ebbi da lui.
Poi è come volare mi diceva Alfredo della musica quando è Giusta.
Daniel Huck, alto sassofonista di spicco del Revival jazzistico francese, mi si avvicinò mentre attendevo l’auto di Daniel Vernhettes per rientrare a casa sua, dopo avere suonato al Petit Journal a Parigi; era il 2000. Era tardi, e Parigi era molto Parigi.
“Vorrei dirti grazie” mi disse.
“Ma per che cosa?”
“Per averci riportato Alfredo. Sai, per me è stato un jazzista unico, un grande maestro... poi non se ne seppe più niente, avevo anche sentito dire che forse era morto, ci è mancato così tanto in questi trent’anni. Grazie. Davvero”. Mi strinse forte la mano. Le strade erano lucide come in un vecchio film americano.
Alfredo non crede in Dio e non ama parlarne. Ma qualcuno è riuscito a strappargli qualcosa, in mezzo secolo, e fu: io credo nel Jazz.
Quando Alfredo stette male, durò per circa dieci anni. Sì, dieci anni. Perché Alfredo è sempre eccessivo. Quando camminò - si narra - per 130 chilometri, perché non c’era più l’autobus. Arrivando direttamente all’ospedale per curare i piedi a brandelli (anche se penso che in realtà ne abbia fatti nella notte una cinquantina, poi i bus abbiano ripreso e ci sia salito; e che il pronto soccorso sia stato fatto dalla mamma)... ma certamente egli, da temerario, partì da Santiago di notte per andare a Valparaiso... a piedi! Chissà.
Alfredo stette male, dunque, per dieci anni. C’è un servizio di vent’anni fa (erano gli anni ‘90), di una nota emittente televisiva cilena, dove un rinomato luminare in psichiatria viene intervistato circa la malattia del noto artista Alfredo Espinoza. Il titolo dello speciale televisivo era emblematico: “Il caso Espinoza”. Nell’esposizione egli asserisce, fuor di dubbio, che si tratti di un complesso caso di schizofrenia senza rimedio e destinato a nefasta progressione. Invece, il sorprendente Alfredo rinasce (vestito questa volta da impiegato di banca). Torna a suonare benissimo: niente alcol, niente droghe, niente coca che non sia anche Cola, parla, scherza, mangia, ingrassa. Il tutto alla faccia del professore luminare.
Non fuma neanche più, da quando anni fa gli diagnosticarono ogni sorta di malattia mortale e non gli successe niente, neppure in tale occasione (enfisema, bronchite, cancro... mancava solo la peste bubbonica).
Nel dicembre del 1982 lo vidi a Santiago per quella che doveva essere un’ultima volta (l’avrei rivisto poi tredici anni dopo), mentre uscivo dalla sala di incisione dove avevamo registrato la cassetta verde della Retaguardia Jazz Band, l’ottimo complesso con cui suonai per anni in Sudamerica.
Ricordo che scrissi una poesia, con quel saluto attraverso la porta, verso un futuro ignoto.

Lasciavo il Cile dopo averci vissuto per anni e tornavo in Italia.
In sala di incisione Alfredo aveva cessato di suonare, immusonito. Non sopportava certi nostri gesti goliardici e infantili, gli stavano strette le nostre lacune e certamente, aveva anche dei problemi con se stesso.
Degli anni successivi seppi che era stato sempre peggio, finché aveva cessato di suonare, si era chiuso in casa, dove rimase per dieci anni. Alfredo non suonava più, non serviva più, era solo un problema. Qualcuno lo diede per morto e quasi tutti si misero il cuore in pace.
Alfredo parla dei suoi amori come lo farebbe appunto un impiegato di banca.
“Sì, deve venire qui mia moglie e mio figlio e dobbiamo fare questo e quest’altro”... E ancora: “mi sposo con Marie Ange - l’amore impossibile parigino - l’anno prossimo e vivremo in Francia, dove ho un contratto a tot al mese, vitto, hotel e anche un ciclomotore e dura finché lo voglio io”.
Mueller, invece (se arriva lui, io parto), mi disse che Alfredo è pericoloso. Infatti gli causò spesso danni e paure quando lavoravano insieme nella Porteña. Mi disse che era una mina vagante. Una volta, quasi gli costò la vita. Durante un colpo di stato in Argentina, si mise ad apostrofare (putear era la pittoresca parola) un carro armato, gridandogli contro che quello che facevano era disdicevole. Martìn, che era in strada al suo fianco (e non voleva finire come a Tien an men), gridò al carrista che lo guardava da dietro la mitragliatrice: No! Scusi! Lo scusi! Il mio amico è scemo! Non lo ascolti!

Diego è un caro ragazzo. Diego Pequeño è un giovanissimo regista cileno, con al suo attivo un’opera prima pluripremiata: il documentario “Escape al silencio” del 2009. È un film di un’ora e mezza su Alfredo Espinoza.
Diego fu folgorato dall’artista Espinoza dai primi anni del millennio e fu preso da un desiderio “missionario” a favore di questo suo grande compatriota (e Patria, nel suo paese, si scrive ancora con la maiuscola), perché tale personaggio non passasse, senza che il suo paese gli avesse tributato un riconoscimento che potesse rimanere.
Si munì di grande forza di volontà, che non gli manca, e cominciò a seguire la pista di Alfredo per tutto il mondo. Io gli avevo detto fin da subito: Diego, ci sono due grossi problemi per il tuo film: il primo è che Espinoza non è abbastanza famoso, e il secondo è che non è morto. Ma Diego è un bravo ragazzo e lo fece lo stesso. E così è.
Vedere “Escape al silencio” è importante, per il lettore di questo libro su Alfredo Espinoza, così come è fondamentale ascoltare le sue incisioni migliori.
Le due cose richiedono una certa passione per rintracciare e acquisire tali oggetti d’arte ma ne vale assolutamente la pena, soprattutto per un amante del jazz.
Una notte, mentre era in tournée con la Porteña, Alfredo rientrò tardissimo in albergo, dove divideva la stanza con un altro orchestrale. Fece rumore, accese la luce e svegliò il collega, e additando l’aitante marinaio che si stava portando in stanza sibilò: lui è mio! Il collega, atterrito, si alzò, prese il materasso e si precipitò in corridoio (sempre puteando, cioè “puttana qui, puttana là...”) per dormire per terra. Alfredo è tutto e il contrario di tutto. È colto, ha studiato da solo, parla di metà e di quarti, di doppi e metà (titolo di un libro di poesia a lui dedicato), del lato oscuro della luna, di Fenici ed Egizi, declamando in spagnolo, in francese e in inglese: il tutto, “tutto assieme e mischiato” (e - non esagero – con qualche citazione in latino). Questo, almeno, faceva durante la clausura dei dieci anni, sul materasso per terra nella sua stanza in Valparaìso nella casa di sua madre.
E di queste cose raccontava, a chi aveva la fortuna che gli rispondesse (a sproposito), perché invece di solito taceva (fumando e guardando con aria ieratica il muro). A volte sento della solidarietà e quasi tenerezza per quel professore luminare e per la sua sfortunata diagnosi, clamorosamente smentita.
Sempre in tema di visioni miopi, nutro anche della comprensione per i cileni che non videro con lucidità il fenomeno Espinoza, che era piombato improvvisamente nel loro paese soltanto dopo essere diventato l’Espinoza fantastico e conosciuto nel mondo. Presto, poi, avrebbe anche perso la centratura psichica necessaria per frequentare proficuamente un ambiente professionale musicale in Cile, allora molto conservatore e dedito alla tradizione. In più, presto, ci aggiunse dieci anni di assenza.
Gli chiesi se si fosse mai drogato: Nunca, mai, mi rispose.
Ottenni, poi, in proposito, un commento da qualcuno che credo ben informato: “Nunca”? Certo che “nunca”! Cioè, “nunca”... con una sola droga alla volta! Almeno dovevano essere due, o per lo meno, mischiate con l’alcol: Alfredo provò assolutamente tutte le droghe che poté - di, da e in - ogni parte del mondo.

Alfredo è estremamente serio nella sua organizzazione professionale. Dà - tra l’altro - lezioni di musica e di sax a molti allievi. Gira l’estesa città con ogni mezzo pubblico, arriva puntuale, se ne va puntuale, si veste per bene, prepara le lezioni. Alfredo con lo strumento parla, conversa. Con chi lo può e lo vuole intendere. Ho un nastro da lui inciso, suggestivo; egli ha composto e depositato credo, un centinaio di temi. Tra questi, mi passò quel nastro con la relativa incisione di alcuni brani da lui scelti, perché tentassi dei testi (così nacque, per esempio, il tema finale del film “Escape al silencio”: “Jazz memories blues”, ribattezzato da tutti come “El tema de Valparaiso” e per il quale Hamilton Vela, pittore e medico, dipinse una bellissima tela, che vorrei avere ma che lui non vende... né regala).
Quella registrazione rudimentale, Alfredo l’ha fatta in casa sua: si sentono passare delle automobili, si odono i suoi passi sul parquet. Lui esclama un titolo, poi si allontana nella stanza e attacca a esporne la melodia col suo sax. Quindi la riespone ma questa volta ci dice (con lo strumento) quali sono le armonie, gli accordi che ha stabilito per ogni battuta. Ci sillaba una frase, “quella” frase, e ci butta dentro un arpeggio rubato o solo accennato, poi un’altra frase, e un altro accenno di arpeggio che però ripete subito, quasi a sottolineare attenti, è questo! (e non un altro accordo, che magari potreste pensare). Ma tutto ciò, non è che lo spieghi prima, né durante, a parole: no, te lo trovi suonato nell’incisione e te lo dice perfettamente, ma solo col sax - e si capisce tutto. Che meraviglia! (come dice Rossano Sportiello).
Espinoza in Argentina era argentino ma, essendo cileno, lo chiamavano “El Chileno”. Quando giunse voce in Argentina, nel 1980, che Alfredo viveva in Cile, tutti gli argentini si chiesero Y que hace El Chileno en Chile? E che fa il Cileno in Cile?
In effetti, al di là della discreta battuta, la domanda era interessante. Credo che i motivi che lo riportarono a Valparaiso furono abbastanza semplici; dopo più di un decennio passato on the road tra tournée, concerti, avventure, amori e bohème, era terminato un capitolo, il suo capitolo più grande. Ora c’era la tristezza di un ritorno dal culmine, verso una realtà molto minore. Finite le tournée con La Porteña, poi coi parigini e infine ancora con La Porteña, lasciata l’Europa, rientrava in Argentina. Terminato anche il breve sogno di una vita normale, con la sua famiglia, perdeva il contatto anche col suo unico, piccolo figlio. Ma la vita, avara con lui, riservava sempre sorprese, sia nel bene che nel male (di solito nel male).
La tranquillità non è, ne fu mai, di Alfredo Espinoza.

Così rientrava “a casa” due volte. Prima in Argentina e poi in Cile, alla casa “paterna”, che negli anni Settanta si era però spostata da Buenos Aires al vecchio Cile, perché il fantino era morto e anche i redditi erano prosciugati. La casa, sebbene fosse ancora quella da cui erano partiti nel 1954, era abitata ora da un diverso gruppo familiare: non più il padre, la madre, le sorelle e lui, bensì solo la madre, col suo ultimo compagno, un conoscente della famiglia, forse un cugino.
Negli anni bui, la “decade del materasso”, mi scrisse una lettera. Era una lettera difficile da leggere ma se la si ascoltava era chiara, pur nella sua incomprensibilità. Mi spaventò e ne distrussi delle parti.
Mi menzionava qualcosa che gli era accaduto e che aveva a che vedere con fenomeni paranormali, che gli erano capitati durante l’atto sessuale.
Mi menzionava streghe e fatture, cose da cui si poteva anche non uscire. Sensibile ad alcuni di questi aspetti, non volli approfondire e ignorai la lettera.
Nel 2000, cioè una ventina d’anni dopo, ero a Parigi con Alfredo. Ero riuscito a organizzare dall’Italia, grazie al prezioso supporto degli amici e jazzmen in Cile, di sua sorella Gladys, di Dan Vernhettes in Francia e di Marcelo De Castro in Spagna, una tournée di una settimana a Parigi e dintorni, per la band assemblata per l’occasione:

ALFREDO ESPINOZA Y SU ORQUESTA INTERNACIONAL
Alfredo Espinoza: sax alto e clarinetto;
Dan Vernhettes: tromba;
Duccio Castelli: Tbn e Vocals;
Rossano Sportiello: pianoforte;
Freddy Legendre: contrabbasso;
Jean-Luc Giraud: batteria.

A casa di Dan, Rossano Sportiello stava conversando attraverso il pianoforte con Alfredo Espinoza, che gli rispondeva col sax (così conversano i grandi), mentre io e Dan ascoltavamo attoniti sprofondati in un divano.
Buttai là a quei due: magari, riuscite anche a fare un tema nelle dodici tonalità senza fermarvi. Si diedero un’occhiata. Sportiello iniziò un tema a caso ed Espinoza lo seguì subito. Il pezzo era partito e andava alla grande. Ad ogni cambio di tono, via con tema e assoli: tutti e tutto perfetto (e, inoltre, bellissimo in ogni tonalità). Alla fine si abbracciarono.
Noi sospirammo, afflitti da un’affettuosa invidia senza speranza.
Qualche anno dopo, a Santiago, telefonai a Gladys, la sorella. Avevo saputo da Alfredo, in piscina, della coltellata. Mi confermò, senza entrare nei dettagli e mi fece poi avere un ritaglio del giornale di Valparaiso dell’epoca, che ne dava questa notizia: “Accoltellato fuori dalla porta di casa da sconosciuti. Vivo per miracolo e grazie ai chirurghi dell’ospedale”.
Il compagno della madre, dopo non molto tempo morì. Dopo poco, morì anche lei.
Nei suoi ultimi tempi, quando, rimasta vedova, viveva da sola con Alfredo, io li ero andati a trovare. Era il dicembre del 1995; spezzoni di quelle riprese cinematografiche sono oggi incluse nel film “Escape al silencio” (la scena del materasso nel trailer).
Il tutto, e altro, era stato girato privatamente per mio conto, e le riprese furono effettuate dal mio grande amico jazzista e architetto: Cristian Amenabar e pure da mio figlio Robin: noi tre formavamo la troupe che giunse sulle alture di Valparaiso, per ritrovare il vecchio amico malato, Alfredo Espinoza.
La sua presenza ci era stata segnalata da un altro jazzista, molto amico di Alfredo e mio: Marcelo De Castro, un “washboardista” cileno trapiantato in Spagna, che lo aveva riscoperto all’incirca un anno prima, nel gennaio del 1995, andando caparbiamente in aereo, bus, e a piedi fino all’antico indirizzo di Espinoza, su per un ripido pendio, un cerro di Valparaiso (il cerro Cordillera).
Alfredo stava male ma ci riconobbe tutti e ricordò il mio esatto indirizzo di Milano e il numero di telefono. Poi ci fece festa, anzi la fece solamente a mio figlio: Ah! Robin! disse, abbracciandolo (nonostante mio figlio fosse molto cambiato, perché era diventato ormai uomo). Infine, Alfredo si mise a parlarci di Fenici e non ne volle sapere di suonare, malgrado avessimo cercato di tentarlo, intonando qualche ritmo con un banjo. Lui, silente, guardava lontano
(e ieraticamente), il muro.
Non toccava più lo strumento da dieci anni.
Quando, dopo una manciata di mesi, anche la madre Marcelina morì, Alfredo fu salvato da sua sorella Gladys, che lo portò a casa sua a Santiago (sacrificando il suo matrimonio, che non resse a lungo a tale impegnativa, nuova e obbligata presenza). Ma, da quel giorno, Alfredo cominciò a riprendersi.
La notizia non uscì dalla sua nuova casa fino a quando un anno dopo Marcelo, ancora di passaggio a Santiago (e c’ero anch’io), non lanciò un grido alla fine di un conviviale asado tra amici jazzisti: ho sentito che Alfredo vive a Santiago.
Ma nessuno ne sapeva nulla e lui insistette: andiamo a cercarlo!
- Ma dove? Tu sei matto! Fa caldo, noi facciamo la siesta.
Marcelo esclamò, dunque, enfaticamente: io vado a cercarlo! Lo cercherò nel quartiere dove visse una volta dalla sorella: chi viene con me?
Solo uno disse andiamo: ero io. Con Marcelo, incontrammo Alfredo dopo ore di ricerche tra e nelle case della gente della zona; prima apparve Gladys, poi Alfredo. Fu un abbraccio. Un abbraccio incredibile.

Alfredo era guarito!
La notizia si sparse.
Io e Marcelo tornammo in Europa.
Alfredo riprese a suonare.
Gli amici riapparvero.
Alfredo Espinoza ha suonato in cinquemila concerti in svariate parti del mondo, con innumerevoli artisti e su un arco di circa cinquant’anni. In tre band ha svolto una lunghissima collaborazione e totalizzato un migliaio di concerti con ognuna. Sono state, in ordine cronologico: la Porteña Jazz Band, la Retaguardia Jazz Band, la Cultrera, Espinoza y Compania.
C’era un articolo apparso sul primo giornale del Cile, “El Mercurio”, alla fine degli anni ottanta, in cui Pepe Hosiasson - “jazzofilo” giornalista e amico - scriveva una intera pagina di commiato per l’anno andato e di augurio per l’imminente Capodanno. Concludeva il tutto auspicando, per l’anno in arrivo, che un grande e dimenticato artista cileno, Alfredo Espinoza, potesse ritornare dal baratro in cui era da anni caduto.
Que tu canto vuelva, che il tuo canto ritorni – fu l’auspicio che gli feci anch’io.
Lo incisi su di un sassofono che gli regalai, pur sapendo che aveva abbandonato tutto, anche la musica.
Incredibilmente, dopo qualche anno, quel sax sarebbe stato suonato, e proprio da lui, Alfredo Espinoza.
Alfredo era ritornato.
El Chileno habìa vuelto.

Porteña, cioè “del porto” (di Buenos Aires, sul Rio de la Plata).
Probabilmente, la migliore orchestra di jazz di tutta la post età del jazz. È stata, cioè, la migliore, tra chiunque si cimentò col jazz classico dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Era in Argentina, la metà degli anni ‘60. Fin dall’inizio fu con loro Alfredo Espinoza, al sax alto, ma anche al soprano o al clarinetto. Spesso, nelle sue incisioni vi sono anche altre ance che potrebbero confondersi nell’ascolto... ma c’è una regola da seguire: se c’è un dubbio su qualcuno, non è Alfredo. I suoi assoli sono firmati dalla sua potenza.
La formazione classica dei primi anni si avvaleva di questi musicisti (non tutti insieme, la formazione era infatti di dieci, o undici elementi):

Alfredo Espinoza:
Sax alto, raramente soprano

Norberto Gandini: tromba
Martin Mueller: tromba
Sergio Tamburri: trombone
Ernesto Carrizo: clarinetto
G. Lanuza: clarinetto
N. Gonzales: clarinetto
Horacio Schere: sax soprano
Ignacio Romero: piano
Luis Rosarno: banjo
Roberto Garzoni: banjo
A. Carozzi: banjo
Ricardo Scarremberg: banjo
Carlos Balmaceda: tuba
S. Lotenberg: tuba
Alfredo Mazza: contrabbasso
Norberto Mendez: batteria
Daniel Passero: batteria
La band impazzò in Argentina, ma anche in Europa e in molti altri paesi, diventando un riferimento discografico del jazz tradizionale revival, per gli addetti ai lavori in tutto il mondo. Ma il periodo d’oro fu dal 1966 alla fine degli anni settanta, sostanzialmente fin quando Alfredo Espinoza lasciò l’orchestra e tornò al suo paese di origine, il Cile, a Valparaiso.
Vent’anni dopo, alla fine del XX secolo, la crisi economica dell’Argentina spinse molti ad emigrare. Tra questi, un buon numero degli allora facenti parte della sempre viva Porteña Jazz Band, andarono a cercare fortuna in Spagna, in settori estranei ala musica. Il caso volle che là si ritrovasse una buona metà di loro, e che decidessero di ricreare la band in Europa. Così, si aprì una triste faida tra chi era rimasto in Argentina e chi era emigrato. Dopo pochi anni di rancori Martin Mueller, uno dei fondatori, morì a Buenos Aires.
Si dice di crepacuore.
Le leggende continuano.

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